Raffaella Bianchi e la “Sindrome di Mestre”

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Raffaella Bianchi

Ha abitato a Mestre per 12 anni. Qualche “mese” fa…

“Rapita da Mestre”

 

Dicesi “Sindrome di Stoccolma”, quel particolare stato psicologico, che si manifesta in presenza di atti violenti o episodi traumatici. Il soggetto affetto da tale sindrome, prova un sentimento profondo, fino all’amore, nei confronti del suo aguzzino. Si crea una sorta di alleanza fra vittima e carnefice.

Io soffro della “Sindrome di Mestre”.

Quando a 12 anni, sono stata costretta a lasciarla, è stato come essere ripartorita, con la differenza che ne ero perfettamente consapevole.

Sono stata catapultata nel resto del mondo, con i suoi colori, i suoi profumi e non ne traevo alcun piacere.

Tutti mi dicevano che ero fortunata, che finalmente avevo lasciato quella grigia e triste città, che potevo giocare in un prato, che non correvo più il pericolo di essere investita in Corso del Popolo, rapita dagli zingari sul cavalcavia, uccisa dalle esalazioni di porto Marghera.

Ma erano persone che a Mestre non ci avevano vissuto nemmeno un giorno.

Cosa potevano saperne?

Mi sedevo alla scrivania della mia nuova ed immensa camera, che affacciava sulla campagna bresciana e pensavo a quella che avevo lasciato, con la finestra dagli infissi traballanti, che dava sul cortile interno di via Bembo. Pensavo e scrivevo a Silvia, la mia amica del cuore, che poteva ancora annusare l’odore inconfondibile dell’inquinamento e vedere il muro grigio del bowling, di fronte a casa.

Avevo una nostalgia talmente densa, che i miei mi caricavano su un treno e mi spedivano a Mestre con una certa frequenza, ospite di amici. ma non era più la stessa cosa.

Era come essere uscite dal cerchio magico e non trovarne più l’accesso.

Quelli che, fino a pochi mesi prima, erano stati i miei compagni di vita, mi sorridevano ora con fare di circostanza e mi chiedevano, incuriositi, come fosse vivere altrove.

“Altrove era un cesso”!

Altro da dire non avevo.

Mestre, per me, aveva quell’odore rassicurante che ha il cuscino, dopo che ci hai dormito sopra per almeno una settimana.

Mestre era la carezza ruvida a callosa di un vecchio che le ha viste tutte.

Mestre era un mantello magico che, a seconda di come ti girava poteva renderti invisibile o palesarti a chiunque.

Mestre era la puzza di Marghera, mischiata al profumo dei biscotti di S. Martino.

Mestre era la nebbia vischiosa, mescolata alle risate dei bambini che giocavano a campanon.

Mestre era il pettegolezzo sussurrato in panificio, intrecciato all’intima consapevolezza che nessuno è perfetto.

Mestre era una mignotta disfatta, dalla quale non pretendevi passione, ma comprensione.

A 12 anni percepivo tutto questo e non potevo raccontarlo a nessuno.

 

“….questa gente di cui mi vai parlando

 è gente come tutti noi

 non mi sembra che siano mostri

 non mi sembra che siano eroi

 e non mandarmi ancora tue notizie

 nessuno ti risponderà

 se insisti a spedirmi le tue lettere

 da via della Povertà”  (Fabrizio de Andrè)